“EDUCARE” deriva dal termine latino e dal quale vengono indicate due origini e due significati diversi: édere, che significa “alimentarsi” edex-dúcere, che significa “trarre fuori“. Il primo significato pone l’accento su un processo biologico che consente la crescita dell’individuo, l’altro sulla possibilità più generale di promuovere lo sviluppo di qualcuno, di “tirarlo fuori” da una situazione di immaturità che può essere tanto biologica quanto intellettiva. I due significati mettono in evidenza una dimensione fondamentale dell’educazione, ovvero quella relazionale: cioè un insieme di processi che caratterizzano un rapporto interpersonale in cui c’è chi “si alimenta” e chi “alimenta”, chi “trae fuori” e chi “viene tratto fuori” dallo stato di immaturità. L’educazione passa attraverso i processi comunicativi che regolano il rapporto tra un membro più competente e uno meno competente in quel contesto; consentendo la trasmissione dal primo al secondo dei contenuti culturali, ma anche dei comportamenti e delle modalità di ragionamento tipiche della comunità sociale cui entrambi appartengono (edurete.org).
Partendo da questa riflessione pedagogica mi sono chiesto:
– Cosa “alimentare”?
– Cosa “trar fuori”?
Se tali domande vengono riferite ai ragazzi che ci vengono affidati, aldilà delle facili conclusioni, si può affermare che non sempre quello che risulta essere scontato sia la cosa più giusta da fare e che, a volte, il processo educativo prende strade impervie, perché occorre tener conto della storia di cui la persona coinvolta è portatore. Quest’ultima frase, che sarà condivisa dalla stragrande maggioranza dei professionisti del sociale, non sempre viene messa in pratica perché il “sistema” risulta ingabbiato da schemi obsoleti che, ahimè, non sempre tengono conto del vissuto del minore.
Cosa alimentare?
Sicuramente i ragazzi che arrivano in comunità hanno un rapporto distorto con l’amore. L’amore è l’essenza del rapporto educativo, quel valore aggiunto che permette a ciascuna persona di poter vivere in pienezza la propria vita. I ragazzi che hanno un livello di amore basso e distorto fanno fatica a vivere una vita serena. L’assenza di amore provoca una serie di effetti collaterali (diffidenza, egoismo, chiusura in se stessi, insicurezza…) che saranno la causa di frizioni nelle relazioni che vivranno in futuro.
Cosa alimentare quindi?
Ovviamente un educatore non può che alimentare l’amore!
Un amore che deve essere principalmente vissuto dall’educatore e trasmesso al minore a lui affidato che, a sua volta, durante il percorso in comunità, proverà a revisionarlo e rattopparlo insieme a lui.
Cosa trar fuori?
Quando un ragazzo arriva in comunità è rivestito di una grossa corazza fatta di pregiudizi, diffidenza, irriverenza che non permettono all’educatore di poter accedere e tirar fuori qualcosa. Sarà il lavoro costante di equipe a smussare questa corazza e permettere la contaminazione dei suoi vissuti con quelli proposti e testimoniati dagli educatori. Se il minore percepisce l’educatore come il “medico” che deve a tutti i costi guarirlo, la corazza iniziale tenderà ad aumentare di spessore, impedendo qualsiasi forma di cambiamento. Se, invece, l’educatore vive in pieno la relazione d’aiuto, nell’ottica della contaminazione, nell’ottica cioè di entrare nella vita del ragazzo, cercando sempre di provare a mettersi nei suoi panni, la corazza iniziale inizierà a sgretolarsi. Una volta alleggerita questa corazza, il minore diventa un terreno fertile in cui provare a piantare dei semi di speranza affinché ci sia una possibilità di un futuro possibile e e soprattutto migliore.
Cosa trar fuori quindi?
In questa logica, ciò che dovrebbe esser tratto fuori è La voglia di mettersi in gioco!
Il più delle volte i nostri ragazzi sono stanchi della vita che vivono, una vita che ha riservato loro molteplici difficoltà, per questo è necessario stimolare la voglia di mettersi in gioco ed aiutarli a prendere in mano la loro vita per farne un capolavoro (Cit. San Giovanni Paolo II). Bisogna far accrescere in ciascuno di loro la consapevolezza di essere portatori di sogni da realizzare e speranze da coltivare.
Ritornando alla dimensione fondamentale dell’educazione, la “RELAZIONE” tra chi alimenta e trae fuori e chi si alimenta e viene tratto fuori, l’esperienza ci porta ad affermare che non esistono metodi precostituiti che regolano tale relazione.
Lo “stile” educativo che vorremmo mettere in risalto, parte dalla concezione espressa chiaramente alcuni secoli fa da Caio Valerio Catullo in questa frase:
“Amami quando lo merito meno, perché sarà quando ne avrò più bisogno”.
In questa frase risiede la chiave di lettura per un graduale e lento approccio alla sofferenza di un adolescente ferito. Questo approccio non prevede l’immediata applicazione del concetto Causa – Effetto, nel senso che un comportamento deviante non per forza deve essere immediatamente sanzionato, ma occorre prima ripercorrerlo con l’interessato, in modo da riuscire a dare insieme a lui un nome a quel comportamento disfunzionale messo in atto. Questo metodo di approcciare alla devianza minorile, parte da un principio fondante della Comunità di Capodarco (movimento nazionale di cui l’Associazione Il Favo fa parte): La sacralità della persona, se ci si sofferma solo a ciò che si chiama “patologia”, ci si dimentica della “Persona”.
Relativamente all’approccio educativo per i “comportamenti devianti”, rischia di essere frainteso per lassismo educativo in quanto, come si diceva in precedenza, il “sistema” risulta ingabbiato da schemi obsoleti che, ahimè, non sempre tengono conto del vissuto del minore; anche questo arduo compito fa parte della nostra Mission: riuscire a sbloccare il sistema, offrendo nuove prospettive in una vision di costruzioni di reti solide a servizio dei minori.
Filippo Pizzo